Karma (adattamento del termine sanscrito kārma[1] (devanagari: कर्म), aggettivo derivante dal sostantivo neutro karman[2] (devanagari: कर्मन्)), è un termine d'uso nelle lingue occidentali traducibile come "atto", "azione", "compito", "obbligo", e nei Veda inteso come "atto religioso", "rito". Il karma indica, presso le religioni e le filosofie religiose indiane, o originarie dell'India, il generico agire vòlto a un fine, inteso come attivazione del principio di "causa-effetto", quella legge secondo la quale questo agire coinvolge gli esseri senzienti nella fruizione delle conseguenze morali che ne derivano, vincolandoli così al saṃsāra, il ciclo delle rinascite. Quello del karma è uno dei concetti nucleari delle dottrine induiste, strettamente connesso all'altro del mokṣa, inteso quest'ultimo sia dal punto di vista soteriologico, e cioè salvezza dal saṃsāra, sia dal punto di vista spirituale, come conseguimento di una condizione superiore, diversamente intesa a seconda della dottrina.
Originariamente la nozione religiosa espressa dal termine sanscrito karman indicava un rituale correttamente eseguito. La Religione vedica era essenzialmente fondata sul sacrificio (Yajña) occasione di scambio di doni tra gli Dei (Deva) e gli uomini[5]. Tale scambio era libero e gli Dei potevano o meno rispondere alle esigenze degli uomini[6]. Sconosciuta è invece nel Vedismo qualsiasi nozione inerente alla sofferenza delle esistenze e della consequenziale necessità di compendiare un percorso di liberazione (mukti) da essa, quanto, piuttosto, obiettivo della stesso sacrificio era quello di guadagnare i godimenti terreni (bhukti)[7].
Con l'avvio dei testi Brāhmaṇa, il sacrificio vedico progressivamente si razionalizza ed organizza[8]. Gli Dèi vengono ora perlopiù costretti dalle formule sacrificali (mantra) a rispondere necessariamente ai doni degli uomini. Il sacrificio vedico possiede qui una rispondenza automatica e necessaria.
I sacrifici vengono ora officiati da una casta precisa e ben individuabile, i brahmani, raggiungendo costi onerosi, in oro e mucche, per il proponente (yajamāna) che quindi richiedeva la certezza del risultato. L'azione rituale del brahmano, qui denominata con il preciso termine di karman, acquisisce quindi il successo automatico se il rito veniva eseguito in modo corretto, ma tale risultato veniva proiettato sempre e comunque nel futuro.
Il futuro del risultato sacrificale poteva dunque essere realizzato anche in quella vita prevista dopo la morte. L'uomo possedeva come un contenitore che raccoglieva le sue azioni religiose in vista del suo futuro[9].
Così in un inno tardo del Ṛgveda X,14,8:
(SA)
« saṃ ghachasva pitṛbhiḥ saṃ yameneṣṭāpūrtena paramevyoman hitvāyāvadyaṃ punarastamehi saṃ ghachasva tanvāsuvarcāḥ »
(IT)
« Incontra i padri incontra Yama nel più alto cielo, grazie ai tuoi sacrifici e alle tue azioni meritorie. Avendo lasciato ogni imperfezione, torna ancora alla tua dimora, assumi un corpo pieno di vigore »
(Ṛgveda X,14,
Nei Brāhmaṇa il sacrificio viene indicato come apūrvakarman (atto il cui esito ancora non è stato raggiunto).
E il mondo dell'individuo è un mondo che lui stesso ha deciso, con le sue azioni religiose, a "costruirsi". Così la Kauṣitakī Brāhmaṇa XVI, 2,3:
(SA)
« atha ha sma āha kauṣītakiḥ parimita phalāni vā etāni karmāṇi yeṣu parimito mantra gaṇaḥ prayujyate atha aparimita phalāni yeṣu aparimito mantra gaṇaḥ prayujyate mano vā etad yad aparimitam prajāpatir vai mano [...] mitam ha vai mitena jayaty amitam amitena »
(IT)
« Kauṣītakī affermava: limitati sono i risultati dei riti in cui vengono recitate un limitato numero di formule sacrificali- infiniti sono i frutti dei riti in cui vengono recitate un infinito numero di formule sacrificali- la mente è l'infinito- Prajāpati è la mente-[...] si ottiene un limitato attraverso il limitato, l'infinito attraverso l'infinito »
(Kauṣitakī Brāhmaṇa XVI, 2,3)
Sylvain Lévi nota, riferendo dei testi Brāhmaṇa che trattano del sacrificio vedico come
« La grande arte sta nel conoscere le misteriose leggi di causalità che reggono i fenomeni del sacrificio »
(Sylvain Lévi. La dottrina del sacrificio nei Brāhmaṇa. Milano, Adelplhi, 2009, pag.142)
Karman nella prima cultura vedica è quindi solo l'atto religioso e corrisponde come nozione alla sua radice indoeuropea. Essendo il sacrificio l'atto religioso per antonomasia della cultura vedica, e acquisendo nel corso dei secoli uno scopo di ottenimento necessario di 'favori' dagli Dei vedici, l'atto religioso (karman) del brahmano svolto a favore di coloro che chiedevano la celebrazione del sacrificio stesso riverbera su questi ultimi come risultati futuri, anche nella vita successiva dopo la morte. Chi fa celebrare molti karman nella sua vita attuale otterrà molti risultati favorevoli nella vita futura, viceversa chi ne celebrerà pochi, otterrà pochi meriti per la vita futura.
Le Upaniṣad sono dei testi ad uso di coloro che partecipavano ai riti religiosi propri del Brahmanesimo. Essi compendiano le riflessioni filosofico-religiose sugli stessi riti, questi ultimi fino a quel momento organizzati e interpretati lungo la tradizione segnata dai Veda, dai Brāhmaṇa e dagli Āraṇyaka.
Come fa notare Karl Jaspers[10] le Upaniṣad compaiono durante il periodo assiale dell'umanità che corrisponde alla nascita della coscienza dove l'uomo
« Viene a conoscere la terribilità del mondo e la propria impotenza. Pone domande radicali. Di fronte all'abisso anela alla liberazione e alla redenzione »
(Karl Jaspers. Origine e senso della storia)
In questo quadro storico la risposta che le Upaniṣad offrono al destino dell'uomo, nella sua vita e dopo la morte, è duplice e comunque segnato irrimediabilmente dalla sua condotta: da una parte egli può seguire la "via dei Padri" (piṭryāna) e rinascere in questo mondo, oppure, ma solo se conduce una vita ascetica rinunciando agli obiettivi "mondani", mirare alla "via degli Dei" (devayāna)[11].
L'uomo modella il suo destino come un "orefice" il suo gioiello, perfezionandolo e rendendolo più bello.
Così la Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad:
(SA)
« tad yathā peśaskārī peśaso mātrām apādāyānyan navataraṃ kalyāṇataraṃ rūpaṃ tanute evam evāyam ātmedaṃ śarīraṃ nihatyāvidyāṃ gamayitvānyan navataraṃ kalyāṇataraṃ rūpaṃ kurute pitryaṃ vā gāndharvaṃ vā daivaṃ vā prājāpatyaṃ vā brāhmaṃ vānyeṣāṃ vā bhūtānām»
(IT)
« Come un orefice prende la materia di un gioiello e con essa foggia un disegno nuovo e più bello, allo stesso modo questo ātman scrollandosi via il corpo e rendendolo insensibile, ne foggia una forma nuova e più bella, quella di uno dei padri (piṭr) o di un gandharva o di un deva o di Prajāpati o di Brahmā o di altri esseri »
(Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad IV,4,4)
Ma la felicità umana "mondana" non è che una piccola parte di ben più ampie felicità.
(SA)
« sa yo manūṣyāṇāṃ rāddhaḥ samṛddho bhavaty anyeṣām adhipatiḥ sarvair mānuṣyakair bhogaiḥ sampannatamaḥ sa manuṣyāṇāṃ parama ānandaḥ atha ye śataṃ manuṣyāṇām ānandāḥ sa ekaḥ pitṝṇāṃ jitalokānām ānandaḥ atha ye śataṃ pitṝṇāṃ jitalokānām ānandāḥ sa eko gandharvaloka ānandaḥ atha ye śataṃ gandharvaloka ānandāḥ sa ekaḥ karmadevānām ānando ye karmaṇā devatvam abhisampadyante atha ye śataṃ karmadevānām ānandāḥ sa eka ājānadevānām ānandaḥ yaś ca śrotriyo 'vṛjino 'kāmahataḥ atha ye śatam ājānadevānām ānandāḥ sa ekaḥ prajāpatiloka ānandaḥ yaś ca śrotriyo 'vṛjino 'kāmahataḥ atha ye śataṃ prajāpatiloka ānandāḥ sa eko brahmaloka ānandaḥ yaś ca śrotriyo 'vṛjino 'kāmahataḥ athaiṣa eva parama ānandaḥ eṣa brahmalokaḥ samrāṭ iti hovāca yājñavalkyaḥ so 'haṃ bhagavate sahasraṃ dadāmi ata ūrdhvaṃ vimokṣāyaiva brūhīti atra ha yājñavalkyo bibhayāṃ cakāra -- medhāvī rājā sarvebhyo māntebhya udarautsīd iti » (IT)
« La massima felicità per gli uomini è essere ricchi e agiati e di comandare sugli altri, con disponibilità dei godimenti umani; ma cento felicità degli uomini equivalgono a solo una felicità di colui che ha conquistato il mondo celeste dei Padri; a cento felicità di colui che ha conquistato il mondo celeste dei Padri equivale una sola felicità di colui che ha conquistato il mondo dei Gandharva; a cento felicità di colui che ha conquistato il mondo dei Gandharva corrisponde una felicità di colui che ha conquista la felicità dei Deva, i quali [grazie ai meriti] hanno assunto tale condizione; a cento felicità dei Deva corrisponde una felicità dei Deva primordiali (ājanadeva[12]) nonché di un brahmano libero dal peccato e dal desiderio; a cento felicità del mondo di Prajāpati corrisponde ad una sola del Brahman e del brahmano libero dal peccato e dal desiderio e questa è la felicità suprema, grande re, tale è il mondo del Brahman. Così disse Yājñavalkya: "Io ti offro mille vacche, o venerabile; ma tu spiegami ancora cose più alte al fine della liberazione". A questo punto Yājñavalkya si impaurì e pensò: "il re è astuto egli mi ha fatto uscire dalle mie difese". »
(Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad IV,3,33)
Allo stesso modo si esprime l'ottavo anuvāka del Brahmāndavallī appartenente alla Taittirīya Upaniṣad.
Ma è nel tredicesimo verso del secondo adhyāya del terzo brāhmaṇa della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad che la dottrina del karman trova la sua prima piena descrizione che ridonderà successivamente nell'alveo delle dottrine religiose e filosofico-religiose indiane.
(SA)
« yājñavalkyeti hovāca yatrāsya puruṣasya mṛtasyāgniṃ vāg apyeti vātaṃ prāṇaś cakṣur ādityaṃ manaś candraṃ diśaḥ śrotraṃ pṛthivīṃ śarīram ākāśam ātmauṣadhīr lomāni vanaspatīn keśā apsu lohitaṃ ca retaś ca nidhīyate kvāyaṃ tadā puruṣo bhavatīti āhara saumya hastam ārtabhāga āvām evaitasya vediṣyāvo na nāv etat sajana iti tau hotkramya mantrayāṃ cakrāte tau ha yad ūcatuḥ karma haiva tad ūcatuḥ atha ha yat praśaṃsatuḥ karma haiva tat praśaśaṃsatuḥ puṇyo vai puṇyena karmaṇā bhavati pāpaḥ pāpeneti tato ha jāratkārava ārtabhāga upararāma »
(IT)
« "Yājñavalkya" -allora gli disse- "quando un uomo, una volta morto, la parola è entrata nel fuoco, il respiro (prāṇa) nell'aria, l'occhio nel sole, la mente nella luna, l'orecchio nel cielo, il corpo nella terra, l' ātman nello spazio etereo, i peli nelle erbe, i capelli negli alberi, il sangue e lo sperma nelle acque, dove si trova quest'uomo?" "Prendimi la mano, amico Ārthabhāga, noi soli possiamo sapere queste cose, non dobbiamo parlarne pubblicamente". E lasciarono l'assemblea parlando tra loro. E parlavano del karman, e mentre lodavano, il karman lodavano: si diventa buoni (si genera merito, puṇya) con le azioni (karman) buone, si diventa cattivi (si genera il male, pāpa) con le azioni cattive. Così il discendente di Jāratkāru, Ārthabhāga, si tacque. »
(Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad III,2,13)
Nella Kaṭha Upaniṣad le affermazioni di Yama, signore della morte (mṛtyu), evidenziano come per gli autori delle Upaniṣad le azioni davvero meritorie non sono quelle che hanno fini "mondani":
« Il passaggio all'al di là non splende per lo sciocco, ottuso dalla passione per le ricchezze. Egli pensa: "Questo mondo esiste, altri non ve ne sono" e così cade in mio potere »
(Kaṭha Upaniṣad II,6)
Gavin Flood[13] ci ricorda infatti che seppur le origini delle nozioni di karman e saṃsāra siano tutt'oggi oscure
« È assai probabile che il concetto di karman e quello di reincarnazione siano entrati nella corrente principale del pensiero brahmanico attraverso la tradizione degli śramaṇa e della rinuncia. »
Nelle Upaniṣad la personalità e la condizione di un individuo sono dunque determinate dai suoi desideri che lo portano a volere e quindi ad agire in un determinato modo; l'insieme di queste azioni producono dei risultati proporzionali alle azioni stesse[14].
I "saggi" delle Upaniṣad sostenevano quindi che non solo il comportamento di un rituale o di un sacrificio pubblico producesse delle conseguenze future, ma che qualsiasi "azione" umana possedeva gli stessi esiti in quanto queste "azioni" rappresentavano un riflesso interno del processo cosmico[15].
In una più tarda Upaniṣad, la Śvetāśvatara Upaniṣad, la dottrina del karman acquisisce i suoi connotati definitivi:
(SA)
« guṇānvayo yaḥ phalakarmakartā kṛtasya tasyaiva sa copabhoktā sa viśvarūpas triguṇas trivartmā prāṇādhipaḥ saṃcarati svakarmabhiḥ » (IT)
« [L'anima individuale,] dotata di qualità determinate, compiendo azioni che producono una ricompensa, fruisce dell'azione compiuta. Passibile di ogni forma, soggetta ai tre guṇa, avendo a disposizione tre strade [come dio, come uomo, come animale] essa, signora delle facoltà sensorie, vaga [nel ciclo delle esistenze] secondo le sue proprie azioni »
(Śvetāśvatara Upaniṣad, V,7. Traduzione a cura di Carlo Della Casa. In Upaniṣad. Torino, UTET, 1983, pag. 410)