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| Titolo: DELLA MAGIA DEGLI OGGETTI Sab Nov 30, 2013 11:00 am | |
| Dal sito "Il calderone magico" Da più parti si assiste a quella che io definisco una sorta di “interiorizzazione” della pratica magica. Rituali, parole di potere, strumenti, erbe, incensi, pietre, gesti…tutto questo in fondo, si dice, non serve davvero. Ciò che conta è la nostra volontà, la nostra coscienza, consapevolezza. Specchio di questa tendenza è un certo relativismo selvaggio: ognuno ha la sua verità, ognuno vede le cose a modo suo*. Una piccola scorsa alla storia della magia, pone qualche dubbio sulla validità di questo atteggiamento. Qualunque forma di magia adottata nel passato (e in molti “presenti” altri geograficamente rispetto al mondo occidentale) trovava (e trova) il suo valore e il suo potere in certi oggetti, luoghi, parole – insomma in tutto quel complesso di elementi materiali/corporei/sensibili che, giusto per trovare un termine riassuntivo, potremmo definire componenti. Gli sciamani, ad esempio, non erano dei relativisti visionari, ma degli esperti delle proprietà (arcane e non) di specifiche specie vegetali proprie del loro territorio, dei minerali che la loro terra nascondeva, delle parti di certi animali la cui vita era legata alla tribù. Altro esempio: i rituali religiosi di tutte le civiltà pagane (classiche e non) erano decisamente precisi, ricchi di componenti – ossia di invocazioni, processioni, vestimenti, offerte determinate. È un passo avanti la soggettivizzazione della magia? Io non credo. Nel Rinascimento si pensava, sotto l’influsso del tardo Neoplatonismo e dell’Ermetismo, che fare magia volesse dire entrare in comunicazione con l’Anima d del Mondo: lo spirito che tiene insieme tutto, in una simpatia (in senso occulto) e amore (in senso naturalistico, non sentimentale) universali. Ora, furono di certo conquiste la scoperta dell’Io, dell’interiorità e la parallela scoperta che per fare magia sono essenziali volontà, immaginazione e credenze. Però mi pare che oggi si accentui troppo questa direzione, cadendo nell’errore opposto: dimenticarsi il Corpo del Mondo – concentrarsi solo sulla sua Anima, che troviamo riflessa nella nostra anima, dimenticandoci del suo Corpo, i cui ritmi sono intrecciati a quelli del nostro corpo, a livelli così profondi che raramente ne siamo consapevoli. Si fa un gran parlare di immanenza, ma dire che non esistono cose magiche di per sé, vuol dire in fondo negare quest’immanenza, e limitarla solo alla nostra interiorità: come dire che gli Dei sono sì in noi, ma non fuori da noi. Se non riconosciamo che alcune cose sono magiche di per sé - dove “di per sé” vuol dire: indipendentemente dalla nostra soggettività, dal nostro io, dal nostro arbitrio - la visione che emerge è questa: un soggetto che proietta significati su un mondo di oggetti privo di per sé di senso; non esistono oggetti magici, è solo questione di punti vista; non esistono erbe (o pietre, o colori) che vanno bene per l’amore piuttosto che per il lavoro, dipende da cosa uno pensa, crede o vuole fare in una specifica occasione. L’errore secondo me è questo: pensare che i simboli siano un affare di segni. Segno vuol dire: prendo un oggetto o un’immagine sensibile e dico che sta per qualcos’altro, per uno specifico significato. Segni sono ad esempio i cartelli stradali o i segni matematici. Non c’è alcuni motivo per cui si doveva scegliere quella specifica immagine per rappresentare un certo concetto o se c’è è un legame molto tenue. Non c’è alcun motivo specifico per cui un triangolo debba rappresentare il segno di “dare la precedenza” o una linea orizzontale significare in matematica “meno”. La realtà dei simboli autentici è invece ben diversa: sono oggettivi, ci si impongono, li troviamo e non possiamo fare a meno di vederci un certo significato in un determinato simbolo. La ruota, il fulmine, la croce, il serpente, l’albero ci parlano già dei significati che vogliono per loro. Rimane comunque un ampio spazio aperto per l’interpretazione, in quanto non esistono significati univoci (ricadremmo nel segno): il serpente ad esempio può essere un simbolo della morte e del male, per il suo essere legato alla terra e velenoso; oppure di rinascita e dell’anima, per la muta della pelle. Ma il fatto che molti significati (leggi: poteri, virtù, corrispondenze) possano essere attribuiti ad un componente non vuol dire che ogni significato possa essergli dato. Questa è quella che io chiamo oggettività del simbolo: che è il simbolo stesso, nella sua consistenza fisica, nella forma, del colore, nel movimento a fornirci già un’interpretazione. Ed è chiaro che questi significati ci vengono offerti in parte perché abbiamo una certa storia culturale, come umanità, alle spalle. La natura è il tipico esempio di come non ci sia molto di soggettivo nei simboli. E’ un punto di riferimento al di sotto delle nostre parole, dei vani discorsi sulla relatività della verità. Se uno è sul sentiero della Dea, secondo me, potrà essere relativista su molte cose, ma non nell’indicare una forma in qualche modo privilegiata di rapporto col divino: i cicli naturali. Incontrare i cicli naturali vuol dire andarci in mezzo alla natura, sporcarsi le mani, camminare, guardare, annusare – ossia: usare il corpo, l’unica via sensata di accesso alla magia. E oltre al nostro corpo c’è il Corpo del Mondo. Non ha senso parlare di immanenza, se poi diciamo che le componenti non hanno significato di per sé. Il Corpo del Mondo non è in noi, siamo noi che siamo in lui. E dobbiamo adeguarci, seguire le sue linee, i suoi movimenti…e i simboli che ci presenta. Senza dimenticarci del divino che c’è nelle cose, prima e al di là che nella coscienza. Del resto anche alcune correnti della psicoterapia contemporanea seguono questa direzione. La separazione, propria della civiltà occidentale di psiche e soma, mente e corpo sembra oggi superata: a parole si dice che siano una cosa sola; nei fatti si continua a pensare al corpo non come ad un elemento attivo e produttore di senso e significato dell’esistenza, ma pressappoco come ad una macchina, che ha funzioni puramente meccaniche e che nulla ha a che fare con la nostra interiorità, che lo usa come uno strumento. Leggendo il libro di Alexander Lowen, Bioenergetica (Feltrinelli, 2004) e meditando sulla mia personale esperienza bioenergetica e con le arti marziali, ho riflettuto sul parallelo fra la sua visione psicosomatica dell’uomo e il rapporto fra psiche e soma nella magia. Per la bioenergetica mente e corpo sono due realtà funzionalmente identiche, per cui ogni conflitto psichico risulta anche in un blocco a livello corporeo, innanzitutto muscolare. Ogni blocco di energia si manifesta sia su un versante psicologico, come rimozione, complesso o altro, sia su un versante somatico, come contrattura cronica dei muscoli, tensioni e postura. Pensare di risolvere un problema solo sul piano della parola, della terapia analitica classica, è un errore: le tensioni croniche del corpo riporteranno il paziente nella precedente situazione di conflitto. Si deve dunque agire sul corpo, col corpo (oltre che sul piano della parola, comunque valevole e presente), imparando a riconoscere il suo valore espressivo. Il presupposto è che ci sia una energia (bio-energia), che unifica corpo e mente e che si mostra in questi due piani parallelamente. Trovo che questa impostazione abbia una profonda affinità con quanto ho detto sulla magia, sui simboli e sulle “cose” magiche. Un’espansione logica del discorso è nella direzione del rituale, della celebrazione. L’eliminazione del Corpo del Mondo, porta al cosiddetto “rituale spontaneo” che significa, troppo spesso e volentieri, nulla di più che un generico sorriso, un benessere, qualche sentimento e respiro profondo…e voilà! Il Divino è servito! Bastasse così poco per mettersi in contatto con gli Dei! Sembra ben strano che tutti i percorsi spirituali si siano adoperati per codificare un qualche tipo di ritualistica e solo alcuni illuminati abbiano invece compreso, all’alba del nuovo millennio, che tutto questo non serve e che basta il sentire. Anche qui ci si dimentica del corpo. Il sentire, anche quello ordinario, è pressoché indistinguibile dalle sue espressioni corporee: non è qualcosa che accade dentro di noi, ma a noi, a partire dalla nostra fisicità – il respiro accelerato, la salivazione, i movimenti, i battiti del cuore, la postura, l’espressione degli occhi, l’inclinazione delle labbra, il passo, il colorito – è tutto questo che ci parla delle emozioni, perché le emozioni, nella loro essenza, non sono separabili dal soma, dal corpo. Così pure per il sentire religioso, secondo me. Questo non può essere separato dall’atto rituale, dalle parole sacre, dai gesti. Naturalmente c’è una possibile obiezione: si può essere d’accordo con me su questo punto, ma non vedere la necessità della codificazione, di forme più o meno fissate di culto. E questo è ben strano, perché la vita di ognuno di noi è zeppa di atti rituali conservati immutabilmente per lunghi anni. C’è il momento dell’ispirazione, in cui improvvisamente viene da connettersi al Divino seguendo l’istinto. Quella è una porta, si è aperta una via. Seguirla una seconda, una terza volta non solo ci rende più semplice la connessione, ma ci fa imparare qualcosa su noi stessi. Se ogni volta che dobbiamo connetterci alla Dea improvvisiamo, non seguiamo un percorso, ma solo il nostro estro e una strada non esaminabile, che non possiamo riprendere in mano. Se invece si creano dei ponti stabili (questo sono, in fondo, i rituali; non dei salti intuitivi, ma delle vere e proprie autostrade dello spirito) essi possono essere ripercorsi, modificati, possono crescere con noi… e ci consentono di non perderci. Sappiamo sempre dove ci troviamo. I rituali sono un po’ come dei compagni, che ci guidano nelle nostre peregrinazioni e guadagnano potere ogni volta che li ripercorriamo. Perché se una preghiera o un incantesimo lo abbiamo pronunciato dieci, cento volte, non appena inizieremo a pronunciare le prime parole, la nostra mente e tutto il nostro essere (psichico e corporeo) già si predisporranno verso il divino, si orienteranno verso di esso, portandoci senza sforzo fino al grembo della Dea. * Corollario: le verità non sono confrontabili fra loro (perché si richiederebbe una verità di ordine superiore, in qualche modo non relativa). Altro corollario, che manca di venir tratto: ogni dialogo è insensato, perché non ha fondamento, non c’è argomentare o esperienza che tenga, tutto è soggettivo. Articolo di "Gabriel" - Gabrio Andena | |
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